Giulio Toniolatti: una vita con i colori della Capitolina

13 Dicembre 2019

Ha uno zaino da ragazzino sulle spalle, un casco sottobraccio, e il telefono. Se buchi la sua difesa, hai interrotto tre o quattro faccende che sta sbrigando in contemporanea, ma ti sorride.

Ha una sagoma atletica, il mento sempre in alto, i capelli spettinati da ladro di caramelle, di un colore un pò irlandese.

È una persona ben educata e si presta all’intervista in modo serio, gentile e curioso. 

Nonostante i pregiudizi di chi scrive sulla sua aria un po’ vanesia, è spontaneo e sorridente, nessuna posa da talentuoso di maniera.

Racconta la sua vita personale, i suoi gusti, le sue esperienze con disinvoltura, alterna espressioni e stati d’animo in modo vivace, con un eloquio un po’ infantile e non sempre a fuoco, ma mai noioso.

Quando parla di sport l’espressione si fa più adulta, le emozioni si amplificano, sistema la postura per rendere lineari i pensieri, come se si accendesse una centralina. Sport e vita sembrano in qualche modo coincidere in lui, è come se la seconda si fosse tirata dietro la prima in una rincorsa di eventi in cui l’amore per il rugby e gli affetti, sono gli unici veri punti fermi.

Che bambino sei stato?

1996 – Piccoli capitolini in Catalogna. Giulio è evidenziato al centro

Amato, felice e molto sportivo. Ricordo mamma che ci portava a fare le gare di nuoto, la divisa della scuola San Giuseppe. Caratterialmente ero già un “rosicone” (ride), rosicavo a carte sin da piccolo quando giocavo con mio nonno. Mi ricordo che a scuola tra il calcetto o altro ero sempre in mezzo a litigare con qualcuno, sempre tra maschi a fare un po’ di casino. 

Una testa calda insomma… 

Mah, agitato in maniera positiva: giocavo a calcetto in casa con mio fratello Filippo, facevamo le gare. Grazie alla ginnastica artistica, ci divertivamo a rimanere sospesi in orizzontale, mani e piedi contro le pareti del corridoio: eravamo due bambini molto vivaci ma educati. 

Più istintivo o riflessivo?

La prima, sono uno che dall’istinto ha sempre avuto molto, nel bene e nel male.

Punto debole?

Mi animo facilmente quando non sono d’accordo su qualcosa: faccio fatica ad entrare in contatto con chi parla una lingua troppo diversa dalla mia. In generale per il mio temperamento, vengo spesso mal interpretato. 

Cosa cambieresti della tua carriera sportiva?

Giulio allaccia gli scarpini ad un giovane atleta capitolino. Ph A.Agosta

Niente, mi guardo allo specchio orgoglioso di quello che ho raggiunto.

Nel tempo ho imparato ad affrontare con carattere le difficoltà, sempre pronto a migliorare e a rialzarmi dopo le sconfitte.

Il mio nuovo ruolo di Direzione in Capitolina suggerisce una rilettura di alcuni aspetti: la mia generazione ha sostenuto un sovrannumero di allenamenti senza poter ricaricare le batterie, una sola settimana di vacanza estiva ad esempio, dai 19 ai 25 anni. 

Da professionista ho mantenuto l’impegno, ma avrebbe giovato essere responsabilizzati più che impegnati, col giusto spazio alle passioni extra rugby o al semplice tempo libero, anche in funzione del rendimento in campo. Oggi “staccare la spina” è fondamentale, come inserire momenti di divertimento e gioco all’interno degli allenamenti: l’entusiasmo è contagioso bisogna sempre tenerlo alto.

* La Celtic League, attuale Guinness Pro 14, è un campionato per Club professionistico nato nel 2001, che raccoglieva le squadre professionistiche irlandesi, Gallesi, Scozzesi. Dal 2007 è stato allargato anche a due squadre italiane, Benetton Treviso e Zebre Parma. 

Qualche rimpianto?

Aver lasciato Treviso in Celtic League, nell’anno migliore della mia carriera: 11 vittorie, protagonista della stagione nel bene e nel male, mi ero riguadagnato la nazionale. Mi offrono un contratto di due anni alle Zebre con obiettivo la World Cup 2015: accetto, anche perché a Treviso mi mancava solo un anno e la società aveva deciso di puntare sui giovani.

I giovani in quegli anni sono spesso stati “lanciati nella mischia”, senza essere adeguatamente preparati al professionismo: molti si sono persi per strada e mi dispiace. Ritengo giusto un passaggio graduale, con maggior consapevolezza da parte dei ragazzi prima di inserirli in un contesto dove poi il livello della prestazione richiesta, soprattutto mentale, è altissimo. 

Cosa ti piace a parte il rugby?

Sono cresciuto in una famiglia di “agitati” (sorride), di persone appassionate di sport e natura: pesca, caccia, montagna, andare a funghi, pesca subacquea, sci, barca a vela: tento di trovare il tempo per fare tutto questo.

Ho avuto la fortuna di viaggiare molto con la mia famiglia, di emozionarmi di fronte alla natura, amo i luoghi in cui posso stare da solo, in silenzio. Gli unici luoghi in cui “Giulio” è calmo: sott’acqua o nel bosco. 

Leggi?

Ho iniziato tardi, amo le biografie, mi appassiono al vissuto delle persone, da Giulio Cesare ad Agassi 

Sei laureato?

Si, nel 2009 in Economia Ambientale, avevo 25 anni ed ero in Capitolina in Super 10; in seguito, mentre giocavo con il Benetton, ho preso un Master in Diritto e Sport Management. 

Sono convinto dell’importanza di conciliare studio e impegno in campo.  Capitolina e F.I.R., in linea con tutto il mondo sportivo, devono sensibilizzare i ragazzi a costruire qualcosa indipendentemente dalla carriera sportiva, per cambiare vita al momento opportuno. 

Primo ricordo in campo?

CUS Roma, campo 1, prima che nascesse la Capitolina nel 1996 giocavamo tutti lì, noi generazione dell’ ‘84 ‘85: giocavo con Gregorio Rebecchini, ci chiamavano Flash e Schizzetto! Siamo rimasti sempre i più piccoli della squadra, ricordo anche Della Torre, Pacini e Vernieri (Bubba), giovanissimi: da lì in poi una vita per i colori della Capitolina.

I nostri genitori ci hanno portato a provare il rugby a nove anni, nel 1993: io ero una molla, facevo ginnastica artistica. Ricordo le docce al Cus divertentissime, inzaccherati di fango.

2003 – Giulio da capitano alza la coppa vinta per lo Scudetto Under 19

Un ricordo speciale con la maglia Capitolina?

Sempre portata con orgoglio e gratitudine: sicuramente alzare una coppa da Campioni d’Italia Juniores, da capitano Under 19, con gli amici di una vita, contro altri amici della Lazio, allo Stadio Flaminio, davanti a 4.000 persone, è stato uno dei momenti più belli della mia carriera.

Quali caratteristiche pensi ti abbiano contraddistinto in campo?

L’istinto, l’imprevedibilità, il carattere, e la capacità di leggere il gioco. L’estro non si può insegnare, ma si può pensare a un’offerta formativa negli allenamenti che, a partire dal minirugby, esponga i giocatori all’imprevisto, alla variazione improvvisa. Si possono abituare a leggere il contesto, ad adattarsi alla situazione, a reagire velocemente. Ritengo importante mantenere una certa libertà di osare in campo, di esprimere al massimo quello che si ha dentro, sempre nel rispetto del sistema squadra. Ho sempre dato tutto me stesso, e questo spero di trasmettere ai ragazzi: si può perdere con chiunque ma non contro sé stessi.

Parlando invece della maglia dell’Italia qual è stata la volta in cui portarla è stato più importante per te?

Durante una visita presso il Reparto di Oncoematologia pediatrica dell’ospedale di Padova, prima del mio esordio con la maglia dell’Italia: forse lì ho capito cosa vuol dire giocare per il tuo Paese e quali emozioni puoi suscitare nelle persone. 

Cosa ti riprometti per questo nuovo percorso manageriale in qualità di Responsabile delle Operazioni in capitolina?

Giulio, stretto ragazzi Under 12, si compiace per l’impegno dimostrato durante il raggruppamento. Ph. A. Agosta

Che ai ragazzi vengano trasmessi i valori di questo sport: essenziale lavorare sulla formazione; mi piacerebbe inoltre far conoscere meglio la storia di questo club, tornare a raccontare chi siamo, le persone, gli affetti, il lavoro di chi si è impegnato negli anni dentro e fuori dal club.

Durante una lezione al Master mi colpì un intervento sui maestri di vita, persone che hanno la fortuna di segnare la crescita dei ragazzi: per me è stato così in Capitolina e credo che tramandare questo tratto distintivo del nostro Club costituisca una sfida e un privilegio. 

Cos’altro dovremmo fare per rendere il rugby più popolare e più praticato in Italia?

Sfruttare l’esperienza di giocatori internazionali nei vari ambiti manageriali oltre che tecnici e far conoscere la storia di ognuno nei diversi contesti, educativi, istituzionali, aziendali. 

Il rugby è uno sport che ha nella sua genesi, nelle sue caratteristiche una forte funzione educativa, possiamo essere lo sport del futuro grazie al nostro potenziale in termini valoriali e formativi.

Un ultimo pensiero per i tuoi genitori: quali insegnamenti ti hanno reso più di altri quello che sei? 

Il senso della famiglia, l’educazione, l’onestà, la determinazione. 

Ti abbiamo fatto una sorpresa e abbiamo chiesto di te a qualcuno.

Sergio Parisse (attuale Capitano della Nazionale): Giulio compagno di squadra in nazionale, ora che non lo hai più accanto, cosa gli vorresti dire?

Abbiamo condiviso una grande esperienza come un mondiale in Nuova Zelanda: mi ricordo una meta di Giulio su un mio passaggio bucando la difesa russa: era appena nato suo figlio, fece un gesto* dopo aver segnato per quel momento speciale.

*In quell’occasione Giulio si è messo la palla sotto la pancia.

Un pensiero sul suo futuro da responsabile di un club come la Capitolina.

Sono convinto tenga moltissimo al suo nuovo ruolo. È un ragazzo che ha sempre dimostrato un carattere molto forte, adatto al compito di responsabilità da svolgere. Gli auguro di portare più in alto possibile un club come la Capitolina.

Leonardo Ghilardini (Tallonatore della Nazionale italiana): Giulio compagno di squadra in nazionale, ora che non lo hai più accanto, cosa gli vorresti dire? 

Ne abbiamo passate tante insieme, in campo e fuori (ricordo ancora la sua festa di 18 anni a cui siamo andati venendo da Padova con altri compagni di Nazionale Giovanile. Ha sempre vissuto in modo passionale e gli auguro di esprimere sé stesso nelle prossime sfide che affronterà.

Un pensiero sul suo futuro da responsabile di un club come la Capitolina.

Nella sua carriera di giocatore ha vissuto esperienze diverse, diverse realtà. È stato bravo ad ampliare il suo bagaglio formativo con percorsi di studi in parallelo. La voglia di fare non gli è mai mancata, quindi che ci dia dentro, segua quei principi e valori che questo sport ci ha insegnato e faccia ciò che avrebbe voluto fosse fatto quando era giocatore.

Franco Smith (prossimo assistente allenatore della Nazionale): ha allenato Giulio nel Benetton, ora che non lo ha più in squadra con te cosa gli vorresti dire?

Ho allenato Giulio al Benetton, l’ho visto prima giocare a Roma nella Capitolina e ho riconosciuto in lui l’“X factor”, imprevedibile! l’ho voluto subito portare con me. È estremamente adattabile, ha giocato al centro, ala, nove, è un giocatore che conosce molto bene il gioco e può influire sul punteggio. Ha avuto una grossa influenza sulla squadra, grazie alla sua capacità di trascinare gli altri a fare il meglio possibile. 

Nel suo nuovo ruolo potrà utilizzare le sue esperienze internazionali.  Ha avuto una strada dura, sa bene quanto l’impegno, il lavoro siano importanti, saprà tirar fuori il massimo da giovani e bambini: talento, divertimento ma anche consapevolezza di quello che possono diventare”.

Daniele Pacini (Fondatore e Direttore del Rugby alla Capitolina dal 1996 al 2016, attuale Responsabile Tecnico del Rugby di base per FIR):

Quando hai conosciuto Giulio?

Eravamo al Cus Roma, 25 anni fa. Un vispo piccoletto molto dotato dal punto di vista motorio e dal carattere marcato.

Poi cosa è avvenuto?

Abbiamo fondato la Capitolina, lui ne ha fatto parte sin dal 1996, ho vissuto tutta la sua ascesa, sia allenandolo in prima persona che come Direttore Tecnico del Club.

Ricordo il lavoro nelle Nazionali Juniores con Franco Ascione, Tecnico Federale, nella ricerca di un equilibrio tra il suo gioco istintivo, intenso, e la pazienza, la gestione strategica della partita. 

Ed ora?

Ha l’opportunità che ho vissuto molti anni fa, crescere professionalmente accanto a persone eccezionali, affrontare sfide individuali e collettive. Ha tutte le qualità per riuscirci, lavorando su quell’equilibrio che gli chiedevo da giocatore. Attenzione, umiltà e pazienza le armi per riuscire. Per me, che lo considero ancora un “mio” giocatore, un’emozione forte quanto il suo primo esordio a Padova con la Nazionale: ed ero lì, con mia moglie e il mio primogenito di 18 mesi in carrozzina. 

 

Maria Palombella

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