Stanza Ovale: LIPPI: I BAMBINI NON PENSANO PIU’ AL CALCIO

17 Dicembre 2015

“Io ho un riscontro oggettivo del disamore per il calcio nel nostro paese. Avete più visto i bambini giocare a pallone per le strade o nelle piazze delle grandi città? Noi ci passavamo le giornate, e non crederete mica che questo gioco si impari in due/tre ore a settimana in una scuola calcio”.

Era luglio 2005 e Marcello Lippi lanciava un allarme che poi, con la vittoria del mondiale di Berlino l’anno successivo, finiva per essere dimenticato o non completamente ascoltato, cancellato, come spesso avviene, dall’ottica di breve termine e dal piacere di vivere solo di emozioni positive durante i successi e non analizzare mai e affrontare concretamente gli insuccessi.

La Cassandra “pallonara” non aveva profetizzato a caso: dopo quell’esaltante finale sono arrivati due mondiali fallimentari per l’Italia del Calcio in mezzo a due Olimpiadi assai poco brillanti. Olimpiadi in cui le medaglie sono venute dalle solite “nicchie dello sport italiano” come la scherma, il tiro, il canottaggio, quelle eccellenze italiane che come nel mondo aziendale o nell’arte ogni tanto ci risollevano da quella mancanza cronica di “sistema”.

Per non parlare poi degli ultimi mondiali di atletica questa estate a Pechino nell’occasione dei quali, nella competizione regina e madre di tutti gli sport, non solo non abbiamo vinto neanche una medaglia con ben quarantadue nazioni davanti a noi ad aver preso almeno un bronzo, ma in realtà ad eccezione di una buona prova di due maratoneti di trenta e addirittura quaranta anni, non ci si può neanche consolare dietro l’analisi non del risultato ma della prestazione…

Lippi aveva dunque ragione? Certo anche perché non è il solo a essere arrivato a tale conclusione che, oltre ad essere sotto gli occhi di tutti, è provata scientificamente da vari studi fatti su campioni del passato e del presente: una quantità enorme di ore passate liberamente a giocare unite a una serie di condizioni facilitanti creano il campione.

Che cosa può mai interessare tutto questo al 99% della popolazione che non parteciperà mai come atleta a un Olimpiade o a una Coppa del mondo? Interessa perché l’uomo ha bisogno del movimento, nasce e si evolve per milioni di anni in un ambiente dove la motricità è elemento fondamentale per la sopravvivenza e questo movimento ha determinato in milioni di anni uno sviluppo di alcune caratteristiche e peculiarità sia fisiologiche sia neurologiche.

La scienza ci dice che l’uomo per milioni di anni si trova a vivere in un ambiente ostile sviluppando il proprio cervello attraverso una lenta evoluzione: cibo proteico ed esperienza lo portano a sviluppare nuove aree dello stesso che servono principalmente a determinare tecniche di caccia per la sopravvivenza.

Si consideri che la lancia come arma appare solo tra i 200 e 300 mila anni fa, per non parlare poi di arco e frecce ancora più recenti: per quasi due milioni di anni la specie umana aveva solo una tecnica di caccia, quella definita “persistente”. Ossia per ore o per giorni i nostri antenati hanno inseguito l’antilope, la gazzella o il cervo di turno portandolo a un livello tale di stanchezza da poterlo avvicinare e, solo a quel punto assalirlo con i rudimentali strumenti a disposizione per ucciderlo ossia sassi e bastoni.

Questo stile di caccia era efficace perché il motore fisiologico dell’uomo è più resistente di quello degli animali. Avete provato mai a correre con il vostro cane? Nello scatto breve ci brucia ma dopo vari minuti di corsa continua inizia a perdere colpi e alla lunga, un uomo mediamente allenato, non ha problemi a staccarlo.

Prima Lippi, poi la caccia dei cavernicoli ma “tutto questo cosa c’entra con il rugby “ penseranno i lettori di Stanza Ovale. C’entra nella misura in cui tutto ciò è riconducibile a un aspetto mentale che in psicologia è definita “resilienza”. Sul tema sono interessantissimi i libri di Pietro Trabucchi, psicologo dello sport e consulente di molte Federazioni Nazionali, che definisce la resilienza come la “capacità di mantenere una forte motivazione verso un obiettivo o nei confronti di una determinata azione, nonostante ripetute difficoltà e insuccessi”. L’evoluzione, si evince dai stesti di Trabucchi, ha determinato che questa capacità fosse una caratteristica psicologica predominante nell’uomo perché finalizzata alla sopravvivenza della specie, senza di questa non si sarebbe potuto cacciare e l’uomo si sarebbe estinto, a sua volta vittima di predatori più forti di lui.

Anche oggi la resilienza è una per la specie umana elemento fondamentale in ogni attività svolta, con un solo problema: non è più stimolata dal contesto sociale, anzi peggio viene costantemente impoverita.

Lo stile di vita sedentario di tanti bambini e adolescenti interessati solo al video gioco del momento e alla realtà virtuale dei “social” e del web. Il mito del talento propagandato dai media a tutti i livelli in base al quale solo chi ha doti cosiddette naturali può raggiungere obiettivi importanti nella vita come nello sport. La tendenza dei genitori ma anche degli insegnanti o degli allenatori a eliminare ogni tipo di difficoltà e rischi verso i giovani, ad esempio pensando che le “crisi”, come quelle derivanti dalle sconfitte o da una non convocazione, facciano male. La ricerca di “percorsi preferenziali” che sono percepiti dai ragazzi come l’unico modo per il raggiungimento dell’obiettivo (ad esempio nel rugby giocare in quella determinata società, far parte di quell’accademia, giocare con il club di eccellenza che tutti dicono faciliti il passaggio all’alto livello).

Questi fattori, e altro ancora, non fanno altro che impoverire la resilienza dei giovani, inducendoli a pensare che sia sempre un fattore esterno e non loro stessi il vero motore e l’unica concreta possibilità per il raggiungimento dei propri obiettivi e, perché no, anche di quei sogni che si fanno da bambini.

Rischiamo quindi di continuare a non vincere medaglie alle Olimpiadi e ai vari Campionati del Mondo, sovrastati dai paesi africani o asiatici, ancora affamati, o dalle superpotenze occidentali che sviluppano i giovani in ambienti formativi più prestativi del nostro; ma il più grande rischio che corriamo non è quello di avere qualche campione in meno, bensì quello di generazioni future che non sappiano più utilizzare quegli strumenti mentali che l’evoluzione ci ha fornito per progredire e migliorare.

Daniele Pacini

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