Tacchetto 21 – Tre madri si raccontano

9 Aprile 2020

Questa rubrica è un mosaico di ritratti femminili. Filo conduttore la palla ovale, incontrata in modi e circostanze di vita diverse, e il racconto della donna come sportiva ed eterna fonte d’ispirazione.

Ana Masetti, Caterina Colitti ed Elena Toniolatti, tre madri capitoline, si raccontano a Tacchetto 21. 

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Ana: Nata a Buenos Aires, terza di sei sorelle, cento cugini con cui passava le estati cavalcando sulle ampie spiagge dell’Atlantico. Ha giocato a hockey sul prato fino a vent’anni e ancora oggi pratica sci, tennis, cavallo. Arriva in Italia a vent’anni per seguire suo padre Ambasciatore argentino presso la Santa Sede: le certezze del suo paese alle spalle, lo studio della Storia all’Università e l’amore per Alessandro, avvocato, ex rugbista, socio fondatore e consigliere della Rugby Capitolina, insieme hanno cinque figli. Madre a tempo pieno, una casa in movimento, ragazzi che entrano ed escono, montagne di cose da stirare, cani da portare fuori, da qualche anno è impegnata part time come fundraiser in un’Ong. 

 

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Caterina:  Nasce e vive a Roma, ha giocato a tennis e viaggiato molto come studiosa di Scienze Naturali, in cui è laureata. Lavora in una società informatica da trent’anni. Le sue giornate scorrono fra lavoro, figli, amici, cani, libri, poco sport. Appena può scappa in campagna nelle Marche dove ritrova le sue origini e dove si sente bene. Durante l’università si appassiona allo studio dei cetacei, in particolare delfini: si è imbarcata su una nave oceanografica per studiarne la presenza nei nostri mari, va in Amazzonia alla ricerca del delfino rosa di fiume. Ancora oggi l’amore per questi animali non la abbandona: quando li incontra in mare aperto si emoziona sempre.

 

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Elena: Nasce a Roma nel ‘57, è sposata da quasi quarant’anni con Fabio, ingegnere, ex pallavolista e socio fondatore della Rugby Capitolina. Ha tre figli Giulio (Direttore Sportivo del Club), Filippo, Livia e due inseparabili nipoti, da ragazza ha giocato a basket. Laureata in Architettura, ha scelto la vita familiare, facendo la mamma: nessun rimpianto. Suo marito ha sempre lavorato fuori Roma; con i figli si è divertita, seguendoli da vicino. Da qualche anno ha ripreso un po’ in mano la professione , gestisce un’impresa familiare  e fa la nonna “era una sensazione che avevo dimenticato: i bambini sanno ascoltare”. Le piace fare mille cose con Matteo e Ginevra: tirano fuori maschere di Carnevale, pennelli, colori, giochi conservati in soffitta, vanno fuori per i weekend e hanno in programma un safari in Sudafrica. 

In quale personaggio del cinema, dell’arte, della scienza ti identifichi?

Ana: Ho frequentato la scuola inglese a Buenos Aires dove “Dramma” era materia curriculare. A 16 anni, dopo aver passato anni a fare l’albero, l’ape, la schiava, l’angelo in terza fila, vengo scelta per fare la parte di Jo March in Little Women. L’insegnante aveva colto la mia totale identificazione col personaggio, l’inclinazione a spiccare il volo solitario e l’attaccamento forte alle proprie radici, è sempre lei la mia preferita. E naturalmente sono andata con mia figlia Beba a vedere l’ultima versione cinematografica, che ci è piaciuta tantissimo!

Caterina: Anche se la mia vita ha poi preso una piega meno avventurosa, mi piace pensare a Diane Fossey la zoologa californiana, che ha vissuto più di 20 anni in Ruanda per studiare una colonia di gorilla di montagna. Una donna che ha vissuto senza compromessi per la sua vera passione, fino a morirne di morte violenta. 

Elena: La Karen de La mia Africa, interpretata da Meryl Streep: una donna volitiva, pratica, ma anche romantica, sensibile, capace di amare.

Qual è stato l’aspetto più duro della maternità e quale il più prezioso regalo in termini di cambiamento personale? 

Ana:  Cresciuta in una famiglia numerosa non ho fatto fatica, sarebbe stato innaturale non avere figli. Sono una persona pratica, poco emotiva, ben organizzata. Mia madre è mancata prima che mi sposassi, ho sofferto la lontananza dalle sorelle distanti ma ho coltivato grandi amicizie: sono una fan delle donne italiane! Il regalo più grande della maternità? La tenerezza, oggi mi è più facile concedermela. 

Caterina: L’amore. Ho visto per la prima volta in faccia i miei figli e ho pensato: ma come ho fatto finora senza di loro? Mi sono sentita felice e appagata. Le difficoltà non sono mancate e non mancano: da diversi anni io e il papà di Giulio e Andrea siamo separati, e questo non ha aiutato nessuno.

Elena: Essere madre è una scoperta, un dono. Certo non è stato tutto semplice: adolescenza turbolenta, difficoltà a scuola, incidenti con i motorini, notti insonni aspettando il rientro a casa. Ho alternato severità a comprensione, cercando il dialogo che è indispensabile non interrompere. Oggi i figli hanno con me un buon rapporto, chiedono la mia opinione per le loro scelte e questo lo ritengo un grande risultato: ho la loro stima e considerazione.

È innegabile che nella società di oggi diverse donne che esprimono le proprie idee in modo libero sono state molto criticate: pensiamo a donne come Liliana Segre o Greta Thunberg. Quanto senti nella tua vita di aver fatto valere le tue opinioni e attraverso quali armi?

Ana: Credo di esprimere le mie idee con la mia vita, con le scelte che porto avanti. Non so se io abbia fatto valere le mie idee, di sicuro le ho vissute e le vivo.

Caterina: Ammiro le donne forti, libere di esprimersi, di non subire il giudizio altrui: Io sono abbastanza chiusa e sono stata sempre timorosa di esprimere i miei pensieri, questo spesso mi ha penalizzata, ma c’è ancora tempo per cambiare. 

Elena: Non amo le distinzioni sul pensiero delle donne, La Segre e la Thunberg non sono paragonabili, la prima è una gran persona, ha trasformato una terribile esperienza in insegnamenti alle future generazioni; la ragazzina, che non amo e non mi convince affatto, ha sì sollevato delle problematiche importanti ma ha sicuramente dietro qualcuno che la strumentalizza: non credo di dover dire grazie a lei se qualcosa cambierà nel mondo. Credo nell’esempio più che nelle chiacchere anche nelle questioni più semplici: sono una persona molto concreta, poche chiacchere e più fatti.

Raccontaci un episodio in cui i tuoi figli in passato l’hanno fatta davvero grossa.

Ana: Credo che i loro Angeli Custodi e mia madre siano tuttora molto impegnati. Francisco e Alberta erano i prigionieri ideali, chiusi per ore nelle scuderie dei cavalli finché faceva buio. Una volta chiusero Francisco nella gabbia col cane, lo trovai dopo ore in lacrime abbracciato a Pampa, puzzolente! Misero una lucertola nel letto di una povera au pair americana che ne aveva terrore: fuggì senza tornare mai più.

Caterina: Durante una trasferta, Giulio e il suo amico del cuore Matteo, hanno iniziato a fare scherzi telefonici dal pullman senza nemmeno impostare la chiamata anonima, dicendone di tutti i colori alle povere cavie. Naturalmente i genitori si sono arrabbiati e loro hanno dovuto rendere conto della bella idea.. 

Elena: Giulio e Filippo avevano dei Santi in paradiso. giocavano come Robin Hood con arco e frecce facendo reciprocamente da bersaglio, una volta si sono arrampicati sul tetto per recuperare un pallone, hanno sparato con il fucile a piombini ai gabbiani in pieno centro; Filippo riuscì a rompersi un incisivo in bicicletta, dividendola addirittura in due col manubrio staccato! Giulio dopo una capriola in piscina, è andato a sbattere sul bordo mettendo punti in testa. Le andate al pronto soccorso erano un’abitudine: il rugby in confronto è stato una passeggiata! Una sera Giulio decise di restare in equilibrio con gli addominali su una piccola stecca da biliardo: gli si conficcò in pancia e finì al pronto soccorso!

Quale lezione pensi che il rugby abbia impartito meglio di te ai tuoi figli?

Ana: Sicuramente la disciplina. Il senso della squadra, del sostegno, la serietà nell’impegno con gli altri. È sempre un lavoro congiunto tra società e genitori, ma ha aiutato moltissimo.

Caterina: il coraggio e il sostegno. Giulio è spesso di poche parole, ma quando c’è bisogno è lì, il suo appoggio si sente forte e sicuro: una volta sono svenuta in casa e mi ha soccorso con l’aiuto di un medico al telefono, in modo scrupoloso e rassicurante. 

Elena: Nonostante la mia severità, durante l’adolescenza dei miei figli ho faticato a farmi rispettare. La disciplina che il rugby impone e l’attenzione che gli allenatori hanno avuto nei loro confronti, sono stati un grande aiuto. Tutta l’esuberanza, la ribellione, sono state incanalate in passione, veemenza, impetuosità sportiva. Hanno compreso quanto la disciplina e il rispetto delle regole e dei compagni fossero importanti.

Molte madri temono che il rugby sia pericoloso per eventuali infortuni in campo: cosa ti senti di dire per convincere le indecise?

Ana: Dei miei cinque figli, quattro sono maschi: Filippo gioca in Prima Squadra e allena l’U16, Corrado gioca tra Prima e Seconda Squadra e allena l’U10, Santiago è in Seconda Squadra e allena l’U10, Francisco gioca attualmente nei Bisonti. Il rugby gli ha permesso di scaricare energie nel rispetto delle regole e in relativa sicurezza; ma conosco molti Pronto Soccorsi in Italia! L’unico consiglio è provare: si vede subito a chi piace e a chi no, e se piace, non c’è mamma che tenga!

Caterina: Io sono fra quelle! le partite mi sembrano spesso battaglie, mi spaventano, ma credo anche i nostri figli rugbisti sviluppino la capacità di affrontare le paure e gli imprevisti. Tempo fa dicevo a Giulio che il figlio quattordicenne di un’amica voleva smettere perché aveva paura del contatto fisico, lui rispose: “proprio per questo deve continuare”. Ripesandoci aveva ragione.

Elena: Giocando a rugby per tanti anni e ad alto livello, tra tutti e due i miei figli qualche infortunio c’è stato, qualche botta in testa o qualche legamento del ginocchio rotto, ma nulla in confronto a quello che succedeva fuori dal campo!

Qualche domanda personalizzata..

Ana, si dice che argentini e italiani siano molto simili. In cosa invece secondo te sono profondamente diversi? E in questo, i tuoi figli sono più argentini o più italiani?

Non ho sangue italiano, la mia non è il prototipo della famiglia “tana” (così vengono ancora chiamati gli italiani da noi, compresi i miei figli). Una caratteristica in comune, senz’altro il sense of humour.

I miei figli sono molto italiani (me ne lamento spesso!) ma non hanno avuto una “mamma italiana”: mai entrata negli spogliatoi, né asciugato i capelli, né preparato panini e tè caldo per i concentramenti: se dimenticavano qualcosa il problema era loro. Non me ne vanto, sono così e basta. Questo sono convinta li abbia resi più liberi e autonomi, anche se un po’ selvaggi, In questo sono proprio argentini! 

Caterina, tuo figlio è Capitano della Prima Squadra: nella vita, in cosa è altrettanto bravo e in cosa ha tutto da imparare?

Sono molto orgogliosa di lui, mi emoziona ogni volta vederlo entrare in campo da “capitano”. 

Ha le idee chiare, sa quello che vuole, è molto impegnato nello sport, allena i bambini con passione. Nello studio riesce bene, ha tanti amici, sembra che ogni cosa gli riesca con semplicità, che tutto gli scivoli addosso: ma è questo il punto. Si sacrifica molto per ottenere ciò che desidera, interiorizza tutto e non sempre è visibile quello che prova o vede i suoi sforzi riconosciuti.

Credo debba imparare a mostrare di più ciò che sente e quanto tiene a quello che fa; inoltre potrebbe essere più ordinato, è disordinatissimo!

Elena, Da ex giocatore ed eterno rugbista, che tipo di padre è Giulio? 

Bravissimo, dalla sua separazione ha voluto essere molto presente, i bambini vivono spesso anche con lui, questo gli ha permesso di costruire con loro un rapporto carnale, protettivo, raro in un padre. È in grado di distinguere un pianto di fame, di sonno, di capriccio: una mamma lo sa d’istinto, un padre difficilmente. È ben organizzato, attento, alle volte un po’ rigido, soprattutto sugli orari e il mangiar sano. 

Ho conosciuto Elena tempo fa al telefono, in modo gentile e spiccio, com’è nella sua natura, mi ha invitato a pranzo. Sportiva, acqua e sapone, capelli biondi raccolti in modo casuale, padrona nello sguardo dello spazio intorno a sé, e dunque, di sé stessa. Ha un viso rassicurante, irradiato da un’eredità positiva, di giornate al mare a raccogliere conchiglie, arrampicata sugli scogli o a pesca, di passeggiate in montagna o a funghi nei sentieri boscosi, a fianco di un padre forse un po’ militaresco, ma certo affettuoso e autorevole, come un padre dev’essere.

La ascolto e penso alla definizione materna di Freud quale “primo soccorritore”: ha soccorso chi le stava a cuore perché questo aveva nelle viscere. In lei la donna e la madre convivono in un’armonia contagiosa, fin nello sguardo dei nipoti che sorseggiano una bibita, con i musi arricciati di soddisfazione. 

Ho incontrato Ana per la prima volta in campo, giocando a rugby touch nell’appassionata, variegata famiglia dei Toccati. 

Non posso dire di conoscerla a fondo, ma abbastanza da associarne il nome alla scintilla latina sempre accesa nello sguardo, che ho a volte ritrovato nei suoi figli. È una donna diretta ma con un sofisticato filtro che le dona un’aria sempre dignitosa e di mondo. Il viso amichevole si colora a tratti di una timidezza che ne addolcisce le considerazioni più ironiche e anticonvenzionali. Pur avendo un numero di figli da stendere un ufficiale prussiano, ha applicato la virtù riservata alle donne: quella di dare ordine al caos. E così gestisce un ministero di gente allegra elegante e piena di vita, cosa difficile o persino rivoluzionaria. Ha pagato un prezzo per questo, ed è stato un continente: un continente immaginifico, avventuroso, sensuale come quello sudamericano, ma “l’arte di perdere” non è da tutti, ed è in parte legata al temperamento, e il temperamento è innato.  

Ho sentito Caterina solo al telefono in vita mia: nel frastuono del traffico ho colto una voce da ragazza e un’urgenza di vita inusuale in un registro formale tra sconosciuti.  È una persona un po’ timida e schiva, amante della solitudine, col fascino sfuggevole delle terre di frontiera, segnata da scelte dolorose in tutti i campi, innamorata pazza di suo figlio, di un amore che si confonde, si nasconde, nelle pieghe della sua storia. Il suo potrebbe sembrare distacco ma è invece la maniera di amare del naturalista, che osserva e interiorizza lo spettacolo delle cose viventi, senza interferire con il loro incanto.

Maria Palombella

ARCHIVIO TACCHETTO 21

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