Maestro, la mail rimase tra le bozze!! Quando hai tempo rendimela compilata, e se puoi anche allegare qualche tua bella foto sia da giocatore sia da allenatore 🙂
Belle le domande! Un po’ di pazienza e ti mando la risposta. Grazie di avere pensato a me
Andrea Lijoi, classe 1958, se non ci fosse la quarantena oggi lo vedremmo a Via Flaminia 867 a dare indicazioni prima agli Under 14 come preparatore fisico, poi agli Under 10 come educatore e responsabile di categoria. Una passione che dura da oltre quarant’anni.
Andrea, sei un veterano tra gli educatori del Club: una vita con il Rugby, come giocatore prima, poi a bordo campo. Come hai conosciuto il nostro sport, in un’epoca in cui non aveva la stessa visibilità di oggi?
Già, una vita nel rugby avendo cominciato nel lontanissimo 1975 seguendo le orme di un mio carissimo amico. Avevo 17 anni, grande per le abitudini attuali, ma allora non si aveva la necessità di fare sport in strutture organizzate, si scendeva in strada e si giocava con gli amici o si andava alla villa vicino casa. Il rugby lo conoscevo solamente attraverso la tv in bianco e nero, quella commentata da Paolo Rosi, la voce RAI del rugby.
Forse non tutti lo sanno, ma negli anni 70 hai vestito la maglia della Nazionale Italiana. Che giocatore eri?
Iniziai nel Fiamma Roma, un anno di campionato di serie D e poi il salto alla Rugby Roma Olimpic, squadra blasonata della Capitale con tanta storia sulle spalle. Un anno di “giovanile” in under 19, la partecipazione alla selezione regionale di Paolo Paladini – che poi avrebbe allenato la Nazionale – e poi l’inizio dell’avventura in Nazionale u.19, con un raduno a Tirrenia (PI) nel gennaio del ’77 e la convocazione agli europei FIRA di aprile in Olanda. Di quella squadra ricordo dei capisaldi del rugby italiano come Massimo Mascioletti che all’URC è ben conosciuto, Oscar Collodo, gigante del Treviso, Stefano Bettarello, piede d’oro del Rovigo e della Nazionale, Gianni Zanon, un numero 8 di gran classe e Fulvio Lorigiola, mediano di mischia e attuale Presidente del Petrarca.
Dal FIRA u.19 alla Nazionale maggiore il salto fu altrettanto breve. Un raduno estivo nello stesso anno a Tirrenia e poi la convocazione per Polonia – Italia, il mio esordio macchiato da un’espulsione dettata da inesperienza e ingenuità. Poi tre anni meravigliosi con Pierre Villepreux in un’epoca in cui si giocava veramente poco rispetto ad oggi.
Mi piaceva molto avere la palla in mano e spesso partivo per delle scorribande offensive che mi portavano a segnare. Adesso si parlerebbe di “ball carrier”. Ricordo la mia prima meta in serie A al Cibali di Catania quando partii dalla linea di centrocampo e infilai la difesa avversaria per schiacciare in mezzo ai pali.
Cosa ti ha spinto a diventare allenatore?
Con Villepreux ho cominciato a capire cosa significasse comprendere il rugby e come poterlo trasmettere agli altri. Lui era ed è un maestro.
Da lì a cominciare ad allenare, contemporaneamente al giocare, fu un tutt’uno. Il mio primo livello come allenatore lo presi proprio con lui nell’81 dopo una settimana nel “covo” di Tirrenia.
Tutti all’interno del Club ti conoscono come ‘Il Maestro’. Da dove deriva questo soprannome?
Questo appellativo non mi è nuovo.
Ho insegnato per 10 anni alla scuola Mazzini, una scuola dell’infanzia ed elementare, e lì tutti mi chiamavano Maestro Andrea.
Alla Capitolina credo che abbia cominciato a chiamarmi così Marco Bitetti, seguito a ruota da Alessandro Lazzari, due nostri validissimi allenatori, un po’ per gioco e un po’ perché, effettivamente, in quaranta anni da allenatore ho vissuto tante situazioni, “trattato” bambini, adolescenti, adulti, che sicuramente fanno di me un allenatore di esperienza.
Cosa significa allenare?
Stabilire con l’altro un rapporto di empatia, vivere e far vivere emozioni attraverso questo stupendo gioco, metafora della vita. Saper trasmettere, avendo la capacità di passare dall’espressione pacata a quella colorita. Allenare significa toccare le corde di chi si mette nelle tue mani per crescere e saper farsi ricordare.
C’è differenza tra allenare in campo ed insegnare a scuola?
Oggi più di ieri sì. E la differenza la fanno i genitori. A scuola, per esempio, oggi è necessario fare molta attenzione a cosa si propone come attività motoria, a cosa si dice, a come ci si rivolge agli studenti. Le pastoie burocratiche sono in agguato e il giudizio dell’insegnante è spesso sindacato sia dallo studente che dal genitore che discute sia sul voto attribuito sia sulla libertà di insegnamento.
Al campo sicuramente c’è più libertà di espressione. Chi viene a fare rugby lo fa per scelta personale e sa che è uno sport “ruvido”, in cui la richiesta è motivata dall’obiettivo che ci si prefigge. Se a scuola l’obiettivo è arrivare alla sufficienza, qui non basta. Vuoi per le caratteristiche del gioco stesso in cui non si può stare in disparte, vuoi perché i genitori che portano i bambini al campo incontrano un mondo in cui l’individuo è considerato come un elemento insostituibile del gruppo e dove la formazione e la sua crescita sono l’obiettivo fondamentale di noi allenatori.
Nel 2014 hai pubblicato “Crescere con il Rugby”: un libro sulla tua esperienza da educatore di un manipolo di Under 6 capitolini, molti dei quali calcano ancora i campi di Via Flaminia. Che esperienza hai vissuto in quella stagione?
Per ragioni personali e di tempo da dedicare all’attività di allenatore, chiesi alla Capitolina di allenare due sole volte alla settimana. Mi mancava l’esperienza di bambini che iniziassero a giocare dal niente e lo feci con i “2004” e i “2005”, una cinquantina di bambini che a malapena sapevano cosa volesse dire tenere in mano un pallone ovale. Fu un’esperienza illuminante tanto da scriverne un libro.
Oggi al campo ci sono ancora tanti di loro che giocano con l’attuale under 16. E tra questi ne ho tanti che frequentano il Liceo Azzarita dove insegno. Beh, ogni volta che li incrocio mi batte il cuore.
A chi è destinato quel libro?
Chi lo ha letto, oltre a trovare in forma romanzata gli aspetti che caratterizzano un anno insieme, può comprendere quali siano i passi da seguire in un primo approccio nel mondo sportivo del rugby, fatto di divertimento ma anche di “regole” di gruppo.
A qualche anno di distanza noti ci siano delle differenze nei bambini e nel modo in cui ci si debba approcciare a loro dal punto di vista educativo?
Una componente fondamentale è la figura del genitore, oggi più di una volta tesa a “coccolare” in maniera eccessiva i propri figli.
La fiducia che viene accordata agli educatori/tecnici è nella maggior parte dei casi ben riposta. Alla Capitolina, puntiamo molto nell’esaltare le caratteristiche del singolo facendolo sentire parte del gruppo. Anche il bambino che arriva al campo per la prima volta non si sente disorientato e rimane immediatamente impressionato dal gioco, dalla naturalezza con cui tutti i bambini si rapportano tra loro.
I sentimenti da “star” sono fuori luogo e i genitori più “vecchi” lo hanno compreso perfettamente. Lo comprenderanno man mano i più “giovani”.
Piuttosto, dal punto di vista motorio in questi ultimi anni, a mio avviso, c’è stata una certa involuzione che porta i bambini ad usare poco il proprio corpo nella vita di tutti i giorni. Sono troppo compressi tra orari da rispettare e attività codificate.
A tal proposito sto scrivendo il mio secondo libro, “Attento che cadi!”, che tratta proprio questo argomento. E’ quasi pronto ma per questa situazione critica dell’ultimo mese, ha necessariamente subito uno stop.
Questo è un periodo un po’ particolare in cui il Rugby, che prima era una delle principali fonti di svago per i più piccoli, è venuto meno. Come educatori come state ovviando a questa situazione?
Sin da subito la Capitolina ci ha messo nella condizione di utilizzare la piattaforma Microsoft Teams per rimanere in contatto con i nostri tesserati.
Allora ci siamo inventati collegamenti on line trisettimanali in cui giochiamo, cantiamo, facciamo ginnastica.
In attività “asincrona” come si usa dire a scuola, abbiamo organizzato concorsi di cucina, video autoprodotti per illustrare giochi con il pallone e non in cui i bambini sono al fianco dei genitori. Insomma, siamo riusciti a coinvolgere l’intera famiglia.
Quanto ti mancano i tuoi ragazzi?
Veramente tanto, così come il dialogo con gli altri allenatori. Vederci attraverso il video, se da una parte è piacevole, dall’altro è frustrante.
Manca proprio il “contatto” tipico del rugby.
Cosa speri di lasciare ai ragazzi durante gli anni che percorreranno insieme alla tua categoria?
Quest’anno ha subito uno stop forzato, ma speriamo momentaneo. Mi sento come se mi avessero tolto dalla bocca un piatto che stavo assaporando e lo stesso, credo, provino i bambini.
In generale, spero che pensino ad un ciclo vissuto intensamente, fatto di dialogo in modo che, incontrandoci in un futuro, ci possiamo salutare calorosamente e magari ricordare qualche aneddoto insieme.