Questa rubrica è un mosaico di ritratti femminili. Filo conduttore la palla ovale, incontrata in modi e circostanze di vita diverse, e il racconto della donna come sportiva ed eterna fonte d’ispirazione.
Paola Zangirolami

Paola Zangirolami è nata il 22 ottobre 1984 a Novente Vicentina.
È vissuta fino a venticinque anni a Stanghella, un paesino di quattromila abitanti della bassa Padovana. Cuore trapezoidale del paese è la grande piazza R.O.Pighin, incastonata tra la Chiesa neoclassica di Santa Caterina, il Municipio, il centro sociale parrocchiale e il Museo Civico. Il romantico Parco M.A. Centanini, che tutti chiamano “il bosco”, è una specie di oasi naturale, con l’omonima Villa secentesca che ospita il Centro anziani.
Intorno, la campagna padovana, col granoturco, i pioppi bianchi, le margherite, le querce, gli alberi di noci e i salici.
In questi luoghi riecheggiano le filastrocche, i segreti adolescenziali di Paola, le voci che hanno chiamato il suo nome.
Suo nonno Gigetto gestiva il bar principale del paese, eredità della bisnonna Filomena nel 36’, per anni sede del Milan Club.
Affidata ai nonni per giornate intere, è cresciuta felice e coccolata da tutti in quel crocevia umano che prende vita attorno a un bancone, tra bicchieri riempiti per festeggiare o per dimenticare, personaggi bizzarri o persone qualunque, signore fascinose o poveri disgraziati. Da donna e giovane atleta, nei suoi modi semplici e non contaminati dalla vanità cittadina e dal successo sportivo, è rimasta la bambina che ha osservato quelle cose dalla carta colorata di una caramella.
Devo le informazioni su Stanghella a Stefano, il cugino di Paola, gestore di un secondo locale della bisnonna Filomena, l’ex “Trattoria, alloggio, ballo liscio” vicino al passaggio a livello, diventato poi il mitico “bar Ciano”. Oggi enoteca “C’era una volta”, non teme sofisticati arredi, seconda casa o via di fuga di ogni stanghellese doc.
Ciano, diminutivo di Luciano, nome involontariamente “sovversivo” in un paese dalla passata identità rossa, è il papà di Stefano e il prozio di Paola, un tipo dall’indiscussa personalità. È un settantenne con tanti orecchini quanti gli anni di esperienza, che nelle sere d’estate, in canottiera e bermuda, ha intrattenuto Paola e le amiche con racconti sul passato, di fronte a una tequila ghiacciata sale e limone.
Il padre di Paola, ex calciatore e appassionato di questo sport fino all’esordio rugbista dei figli, ha lavorato come contabile per varie ditte ed è stato Presidente del Monselice Rugby; mamma Mariella è segretaria in uno studio medico, niente affatto sportiva; Vincenzo, fratello minore di un anno, fa il cuoco e ha giocato a rugby fino all’under18. Da bambina sognava di giocare in Nazionale e c’è riuscita.
Dopo il liceo scientifico si è laureata in Scienze Motorie, per poi iniziare come istruttrice di rugby nelle scuole; ha insegnato educazione fisica e lavora al Decathlon, sogna di aprire una Fattoria Didattica. Ha tre pittbull, Havana, Kenya e Timothy, e un bassotto di nome Dino.
Cosa ami fare nel tempo libero?
Sport naturalmente, non solo rugby, che continuo a praticare con gli Old e gli ImplaccAbili del Mixar dell’Unione Rugby Capitolina, ma anche bicicletta e corsa. Adoro viaggiare, perdermi per luoghi sconosciuti, anche da sola per il centro di Roma. Passo molto tempo con i miei cani, piuttosto impegnativi! Sin da piccola ho avuto molti animali: mia madre li adorava e mio nonno aveva molti cani, con loro passavo le giornate in campagna con la bici. Mi piace uscire con gli amici ovviamente, ma la maggior parte di quelli più cari vive lontano, dalle mie parti.
Ci parli del tuo incontro col rugby?
Ho iniziato a sette anni per spirito di competizione fraterna con Vincenzo.
Fino all’u14 ho giocato in una squadra maschile con l’Ercole Rugby Monselice: il gioco mi è piaciuto subito, mi veniva naturale, ma ero l’unica bambina e i maschi mi prendevano in giro, ho recuperato questo pregiudizio “ridandogliele” a dovere! Giocavo anche nella squadra della scuola, i miei genitori mi seguivano negli allenamenti in modo metodico, tre o quattro volte a settimana, facevamo anche settanta chilometri per raggiungere il campo. Ho sempre giocato con i maschi, poi ho iniziato con ragazze di dieci anni più grandi, io quattordici loro venticinque: l’approccio maschile al campo, spiccio, meno complicato, mi è mancato sempre.
In quali ruoli hai giocato?
Un po’ tutti i tre i quarti. Nell’ultima partita di Campionato Italiano della mia carriera giocata con Il Valsugana contro il Colorno, ho giocato terza linea.
In quali Club successivamente?
A Rovigo, Padova, Treviso, Mira; poi Richmond a Londra: ottanta ragazze, ben cinque allenatori, un infinito materiale a cui attingere, indimenticabile in campo Josh Lewsey, fortissimo: ala dell’Inghilterra che vinse il Mondiale nel 2003, un riferimento d’eccellenza.
Al mio ritorno ho iniziato al Valsugana, anni meravigliosi, percorso entusiasmante: all’inizio prendevamo cento punti dall’avversario, poi abbiamo vinto il Campionato .
Ci parli di come è iniziata la tua esperienza in Nazionale?
La prima volta che sono stata chiamata avevo quindici anni, giocavo solo agli allenamenti, non ancora le partite ufficiali. La prima è stata con Andrea Cococcetta, al mio primo raduno mi sono rotta il naso con un placcaggio (la prima di otto volte)!
Il mio impegno era coinciso con l’abbandono di molte ragazze a fine carriera, ricordo varie diciottenni come me all’esordio.
Ricordi la tua prima partita in maglia azzurra?
Certo! Ai campi del Cus Roma, eravamo piccole, super agitate, preoccupate di sbagliare gli schemi (ride..). Perdemmo contro la Francia di pochissimo, risultato soddisfacente. Ma fu la partita degli Europei a Tolosa a darmi la chiara proporzione dei nostri limiti, in campo contro l’Inghilterra che prevalse nettamente: fu chiaro che dovevamo lavorare duro per essere competitive, soprattutto sul piano fisico: utilissima la strigliata dell’allenatore in quella circostanza.
Andrea Cococcetta (che come tecnico della Nazionale femminile ha vinto i Campionati Europei nel 2005 e 2006) ha messo in luce la tua leadership naturale: per te che allenatore è stato?
Severo, ma il giusto. Soprattutto con le donne è necessario esserlo, lui non la manda mai a dire, è diretto, assertivo, e da ingegnere, molto preciso: ricordo la puntualità tra le altre cose a cui teneva moltissimo.
Che cos’ è l’agonismo?
Lo spirito competitivo, la spinta a lottare per prevalere su altri individui, nello sport come in altri contesti. Nel campo da rugby è il connubio tra aspirazione individuale e voglia di dare il massimo per portare alla vittoria la squadra. In Italia il termine agonismo sembra avere una valenza più negativa rispetto alla cultura estera: credo che per fare rugby ad un certo livello, non solo “birra e salsicce” come diceva il mio allenatore, sia una componente imprescindibile, io mi identifico sin da piccola in questa inclinazione, non tutti ce l’hanno e non tutti aspirano ad arrivare al massimo.
Quali sono le tappe salienti di questo percorso e cosa ti ha spinto a chiuderlo?
L’esordio al Sei Nazioni nel 2007 (a seguito di un infortunio del capitano fui io a sostituirlo) e la qualificazione ai Mondiali Seven a Dubai nel 2009. L’esordio come tecnico di Andrea di Giandomenico con il suo contributo brillante, innovativo. La mancata qualificazione al Mondiale del 2014, colta alla successiva edizione. Il mio infortunio alle ginocchia, entrambe operate con relativo recupero di un anno e il complicato rientro in campo: ero cambiata, ma pur non giocando da titolare mi sentivo responsabile nei confronti delle mie compagne in un’altra veste, soprattutto con le più giovani. Proprio a seguito di questi infortuni, ho preferito interrompere il mio percorso: credo che la consapevolezza dei propri limiti, soprattutto fisici, sia essenziale in un’atleta.
Quale giocatrice della Nazionale di oggi apprezzi particolarmente e perché?
Da sempre Beatrice Rigoni, mediano d’apertura del Valsugana, primo centro della Nazionale, che ho avuto modo di seguire direttamente come una mia “protetta” avendo ricoperto il mio ruolo: mi sono sempre rivista in lei anche per le esperienze pregresse in comune.
Da capitano della Nazionale qual è stata la difficoltà maggiore nel rivestire questo ruolo?
Soprattutto all’inizio il gap anagrafico: era strano indirizzare, da persona timida e riservata, atlete molto più grandi e con un’esperienza più lunga della mia.
Hai sposato Francesco Grillo, come vi siete conosciuti e che moglie sei?
Ci siamo incrociati varie volte nelle tappe del Beach Rugby senza parlare, ma durante la qualificazione del Mondiale in Svezia ci siamo conosciuti. Durante le elezioni federali a Roma ci siamo ritrovati, a Treviso definitivamente scelti l’un l’altro. Mi considero una moglie semplice, senza troppe pretese: siamo una coppia di sportivi e due ottimi compagni di viaggio, non solo in senso metaforico. Siamo molto diversi caratterialmente, io istintiva, rapida nelle decisioni, Francesco riflessivo e incline a ponderare sin troppo le scelte; io taciturna, sintetica, lui parla per dieci!
*Francesco Grillo è Giudice Federale Nazionale, tra i soci fondatori dell’Unione Rugby Capitolina a soli diciotto anni . Ha allenato dieci anni l’u 8, u 10, U 12. Ha giocato al Cus e all’Unione Rugby Capitolina, a Parigi nel Puc, in Svezia nello Stockolm Exiles, in Argentina nel Tala Rugby Club; attualmente gioca con gli Old e gli ImplaccAbili del Mixar dell’Unione Rugby Capitolina . Ha contribuito all’ideazione e alla realizzazione del Controprogetto che ha dato vita all’attuale Prima Squadra quando il Club ha rinunciato al Top Ten .
Il viaggio che ricordi con più emozione?
Israele, Palestina e Giordania in bicicletta: posti stupendi, tantissima fatica (in particolare la salita sul monte Nebo, nella Giordania occidentale), atmosfera non sempre “rassicurante” viste le tensioni ben note. Un evento per molte persone vedere una donna che faceva un viaggio in bici!
Ho incontrato Paola dopo cena, nella Club House dell’Unione Rugby Capitolina il primo giorno di uscita serale post lockdown: sulla mascherina si è aperto uno sguardo accogliente e genuino. Con occhi lagunari e capelli dorati da maschietto, mi ha ricordato i putti veneziani riprodotti in bronzo o nelle statuine di Murano in vetro soffiato. In totale contrasto col viso, un corpo robusto, eretto, compatto come una pesca noce. È un esemplare non lezioso di femminilità veneta, che sulla forza fisica e mentale, un marcato spirito agonistico, e un’assennata educazione dei familiari, ha costruito una carriera sportiva d’eccellenza rimanendo umile.
Oggi, questo girasole della Pianura Padana, è un’instancabile lavoratrice, una cuoca provetta, una donna consapevole e una moglie felice: testarda per natura, saprà pilotare le sue scelte future come ha fatto in campo.
È il suo ritratto a chiudere questa stagione di Tacchetto 21, Flaubert diceva “quando scrivi di qualcuno fallo come se dovessi vendicarlo”: non lo so se ci sono riuscita, senz’altro le mie interlocutrici hanno vendicato me, dalla solitudine a cui condanna il dialogo interiore, quando non si apre all’ascolto di ciò che accade fuori da se stessi.
Maria Palombella