Tacchetto 21 – Madre & Figlia

7 Maggio 2020

Questa rubrica è un mosaico di ritratti femminili. Filo conduttore la palla ovale, incontrata in modi e circostanze di vita diverse, e il racconto della donna come sportiva ed eterna fonte d’ispirazione.

Questa puntata di Tacchetto 21  ci presenta una madre e una figlia, membri della squadra  de “I Toccati” dell’Unione Rugby Capitolina. L’intervista è rivolta anche a tutti i figli dei compagni di Touch, occasionali “special guest” ai nostri allenamenti:  Valerio, Matteo, Jacopo, Niccolò, Leo, Giacomo, Lorenzo e i quattro fratelli Valerio, Monica, Edoardo e Matteo Iachizzi, all’allegria, alla bravura, alla passione congenita di cui sono capaci, va il nostro grazie.

Francesca, figlia

Ph. A.Agosta

Francesca Bilanzone nasce nel luglio 2002 a Roma, non ha mai vissuto in altre città e le va bene così. Le piace viaggiare, ma poi tornare a casa. È al quarto anno di liceo scientifico Farnesina e se la cava bene,  vuole iscriversi  a Medicina e diventare medico legale.

I suoi sono separati da quando era piccola e la vive abbastanza bene. Ha una sorella maggiore e un fratello più piccolo che gioca in Under 12 all’Urc .

Le piacciono i romanzi rosa e i gialli, Dan Brown in particolare. Legge e disegna con le cuffie nelle orecchie,  raccoglie qualche critica per questo,  ma è un’adolescente e lo adora.

Ascolta rap, artisti non commerciali come ‘Rancore’ o ‘Cranio randagio’,  apprezza il più “smielato” Ultimo. 

Non va al cinema, segue le serie perché gli episodi “durano meno”. Il suo ragazzo ideale è castano, “non perfettino” e deve farla ridere. Ama il mare d’inverno, le giornate soleggiate  con qualche nuvola. Non ama le persone chiuse e che non considerano l’opinione altrui.

Non le piace stare a casa e in tempi di quarantena si diletta in cucina con qualche dolce. Cinque anni di nuoto sincronizzato alle spalle, poi smette per la difficoltà di conciliare studio e impegno agonistico. Prova la pallavolo ma la rottura del crociato non aiuta: dopo una pausa dalla palla tonda, approda fatalmente a quella ovale. 

Roberta, madre 

Roberta Testa ha quarantatré anni, nata e cresciuta a Roma da una famiglia semplice con un fratello maggiore di quattordici mesi: da piccola usciva solo accompagnata da lui e purché decidesse per lei cosa indossare, sviluppa un lato maschile che non la abbandona mai più. 

Non ama la gente che si lamenta troppo né il freddo, se non in campo. Le piacciono gli uomini solari, con un bel sorriso. Adora i tramonti romani, la lasagna al ragù, Eros Ramazzotti e i bambini: sognava di diventare maestra. Ha il diploma d’Istituto magistrale più un anno integrativo con corsi pomeridiani, era già in graduatoria per le supplenze quando, giovanissima, inizia come impiegata in Rai. Conosce lì il papà di sua figlia con cui è subito amore:  come a volte accade, dura poco: orgogliosa torna a casa dai suoi “con il fagotto” e poco dopo la nascita di Francesca perde sua madre, insieme all’idea di famiglia. Si rimbocca le maniche e va avanti grazie a Francesca  “..era mia, per sempre: questo mi ha dato l’energia e la forza di andare avanti”. Dopo un po’ conosce il padre del suo “maschio preferito”, Niccolò, timido e mammone, l’opposto della sorella. Lo iscrive ad uno sport poco conosciuto in famiglia, il rugby: inizia in Under 6  l’avventura all’Unione Rugby Capitolina. 

Che madre è Roberta/Che adolescente è Francesca? Almeno tre aggettivi

F: Presente e pronta ad ascoltarmi, consigliarmi: è buona e affascinante, un po’ smemorata!

R: È una ragazza serena, ambiziosa e felice.

Che cosa leggi nello sguardo di tua madre/figlia?

F: Vedo rispecchiato nei suoi occhi il mio stato d’animo del momento.  

R: Complicità, amore e alcune insicurezze adolescenziali.  

Qual è il compito più difficile per una madre/per una figlia?

F: Non perdere la sua fiducia e rispettare le proprie responsabilità. Capirsi nei reciproci punti di vista, non percepire le regole come “ordini” fine a se stessi, coglierne il significato, anche se in quel momento siamo spinti in una direzione opposta. 

R: Non essere diretta e riuscire a trovare le parole giuste 

La frase più ricorrente di tua madre/tua figlia?

F: “Sai perché è buono? Perché è fatto con amore” lo dice sempre a tavola, non essendo una cuoca provetta!

R: “Mamma posso uscire?”

Quali sono/sono stati i must della tua generazione?

F: Il sushi, gli Stelio (stivali stile “pompiere” molto di moda tra gli adolescenti), i pantaloni a vita alta per le ragazze, il taglio di capelli rasato ai lati col ciuffo davanti per i ragazzi, la Minicar, tra i miei amici alcuni luoghi di ritrovo come la Terrazza nelle serate d’estate, Piazza Trilussa, Ponte Milvio. 

R: I pomeriggi al Piper di sabato tutti con le giacche di renna e le Tobacco ai piedi, il volto di Tom Cruise in Top Gun, le lunghe chiacchierate dal telefono fisso o dalle cabine col caratteristico rumore del gettone, le lettere cartacee tra innamorati.

Che ruolo ha avuto la tua famiglia nello spingerti a praticare il Touch?

F: I miei genitori mi hanno spesso spronato a tenermi in movimento, mi incuriosiva quando mamma tornava felice dal campo e si confrontava con mio fratello, inizialmente ero titubante, mi intimoriva lo sport di squadra, il contatto in campo: poi li ho visti giocare in spiaggia, ho visto l’allegria, il divertimento: ho voluto provare. 

R: Importante. In passato ho frequentato palestre, fatto jogging. Poi mio figlio Niccolò voleva condividessi con lui il campo oltre alla panchina, chiacchierando con le mamme veterane del gruppo durante gli allenamenti, ho conosciuto il gruppo amatoriale de “I Toccati”. Nicco super eccitato all’idea di giocare un giorno insieme,  ha spinto a provare me, poi anche la sorella. Da allora non ho più mollato, è divertentissimo!

Quale limite di te stessa credi di aver superato in campo? 

F: Ha a che fare con la mentalità di squadra: fidarmi e basare il gioco sul gruppo e non solo su di me. 

R: Alcune timidezze nell’impatto con la squadra, persino il terzo tempo!

Che cosa provi oggi ad avere tua madre/figlia in campo?

F: Sensazioni belle, abbiamo sempre condiviso tutto, ma in campo mia madre si trasforma ai miei occhi, abbandona la figura autorevole che ha in casa e diventa una compagna al pari di tutte le altre.

R: Sono felice, soprattutto perché so dov’è e non devo preoccuparmi di andarla a raccattare da qualche parte! Giocando con mia figlia spesso capita di motivarci l’una con l’altra, soprattutto nelle serate piovigginose…. “mamma sta diluviando, se iniziano i fulmini scappo”…“noo tranquilla non ci sono, andiamo!” ( e comunque è bellissimo giocare sotto la pioggia, si ritorna bambini), a fine allenamento ci confrontiamo su regole, errori e mete in campo.

Ti da più soddisfazione una meta segnata da te o da lei?

F: Da me.

R: Da me. Una fatica arrivarci!

Il gesto più nobile che ricordi in un compagno di squadra  

F: Congratularsi alla fine di un’azione anche se non finalizzata

R: Passarmi la palla in prossimità della meta

Che cosa significa giocare in una squadra mista?

F: Confrontarsi e relazionarsi con il gioco dei maschi, più veloce e resistente; inoltre in campo la loro naturale vena goliardica aiuta ad allenarsi con lo spirito giusto.

R: Vieni coccolata di più

Qual è per te l’aspetto tecnicamente più difficile del touch? 

F: Bucare la difesa.

R: Tornare indietro a cinque metri dopo il tocco.

C’è un elemento nell’impatto con questa esperienza che non ti aspettavi assolutamente?

F: Ambientarmi così bene in un contesto di persone più grandi.

R: L’intensità del legame che si instaura in campo e il senso di responsabilità che comporta coordinarsi come squadra. 

Cosa ti sentiresti di consigliare ad un giovane che si avvicina oggi alla tua disciplina (che si può praticare dai 1-14 anni ai 90)?

F: Essendoci giocatori di tutte le età, lo consiglio a tutti, le prestazioni saranno sempre meno importanti del divertimento! È perfetto per sfogarsi a fine giornata. 

R: Di provare! oltre ad essere divertente, ti dà l’opportunità di relazionarti con persone di tutte le età, di ambienti diversi e poi…per il terzo tempo,  ottimo per farsi una risata e ridimensionare i pensieri quotidiani.

Francesca, sei la più giovane nei Toccati, gioie e dolori?

Essendo la più piccola sono molto coccolata e tutti mi vogliono in squadra, ma devo al contempo soddisfare le aspettative basate sulla mia età. Il tasto dolente è  affrontare il terzo tempo, tutto quel ben di Dio sul tavolo… difficile controllarsi! è l’unico appuntamento a cui sono tutti puntuali, più leggeri, senza ansia da prestazione.

Roberta, qual è stato il momento fuori dal campo più divertente con la tua squadra? 

Un pranzo estivo con i miei compagni al mare, con partita di touch in spiaggia, una giornata piena di risate che porto ormai nel cuore.


 È la prima volta che scrivo su compagne di squadra, persone con cui sono in contatto anche fisico continuativo: non è semplice parlarne in modo oggettivo, ammesso che in questo momento “storico” qualcosa risulti facile. Sospesi in una bolla surreale i pranzi all’Hostaria del Campo, i racconti di vita alla staccionata, restano i messaggi e le mail, ben più prosaici ed estranei alla fisiognomica che ispira questi ritratti: niente espressioni fugaci, incongruenze improvvise, sfumature del pensiero.

Sospesa per giorni di fronte alla finestra della mia stanza al PC, seguo a puntate le vicende matrimoniali di una coppia di merli sul fico di fronte, inaridita dall’ipervigilanza sull’ambiente, dalla disinfezione degli oggetti,  dalla vittoria del pragmatismo sulla fantasia, dalla mancanza di tatto a mani nude sulle cose del mondo, dalla distanza del profumo del glicine nel mese di aprile.

A caccia d’ispirazione sui rapporti madre figlia nello sport, non molti a dire il vero, sembra che il touch sia l’unico in cui i consanguinei condividano il gioco: rubando una scintilla all’anima del rugby, la traspone in uno sport completamente diverso, sfidante, imprevedibile, rigenerante come l’aria fresca nelle giornate dagli orizzonti più limitati. A prezzo di un sacrificio a cui presto ci si affeziona, sposta i confini di identità già mature, matura quelle in embrione.

Una partita con i figli, può incrinare l’asse frontale, monodirezionale della relazione, raffinarne le dinamiche, ridefinirne le priorità: chi rivendica, seppur cresciuto, il bisogno di inzaccherarsi il muso di fango tra i fumi del gelo, e chi, libero dai doveri impartiti dall’educazione, scende in campo con un familiare col triplo degli anni, la metà del fiato, ma la stessa voglia di bucare la linea avversaria.

Senza ridurre il touch ai soli contenuti “romantici”,  poco credibile anche per i meno esperti, permette a genitori e figli di condividere gusti, affinità, sacrifici, come esseri umani liberi, distinti: Francesca adora giocare con sua madre, ma rivendica la preferenza a sfidarla nella squadra opposta; Roberta è rassicurata dal fatto di averla con sé nell’ora di divertimento, ma aspira a far meta per se stessa e per i suoi compagni. Un legame in cui si è fusi  in un amore insaziabile e mai privi di condizionamenti, non può che fortificarsi nel gioco: significa lasciare la propria personale impronta sull’erba del campo, come nella vita, anche se accanto c’è quella di chi abbiamo dato al mondo, e viceversa. 

Maria Palombella

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