Espartanos, un sabato particolare

espertanosSabato 31 ottobre la Capitolina ha avuto l’onore ed il piacere di ospitare la squadra argentina degli Espartanos, a Roma per una udienza privata con il Papa e, con l’occasione, giocare a rugby.  Su chi siano gli Espartanos e quale sia la loro storia non mi soffermo, così come non mi vorrei soffermare sul risultato delle partita (per la cronaca finita 7 a 4 per gli argentini, con l’ultima meta capitolina concessa abbastanza generosamente dall’arbitro, e pur tuttavia non contestata, neanche minimamente dagli avversari).

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Insomma per una volta vorrei tralasciare, senza assolutamente volerli sminuire, quelli che sono gli aspetti “tipici” del rugby (quali un ottimo terzo tempo, a base di lasagne, birra e manicaretti a vario titolo arrivati sui tavoli), nonché quelli che sono i nostri valori, come giocatori e membri a vario titolo del mondo ovale. Non perché non siano importanti, ma perché credo che in questa occasione sia opportuno sottolineare altri aspetti, non meno importanti.

Mi preme quindi sottolineare quello che è stato l’impatto, emotivo ma non solo, che questi ragazzi che provengono da un mondo così distante dal mio hanno avuto su tutti noi, e su di me in particolare. Ammetto che il mio atteggiamento nei confronti del mondo delle carceri è sempre stato di rifiuto. È una realtà che mi sono sempre rifiutato di conoscere e riconoscere, relegandola ai margini della mia vita di persona “perbene”. Nella mia mente chi andava in carcere se lo era meritato  anzi, inconsciamente, vi era quasi geneticamente o socialmente predestinato. Era una macchia “ab origine” che segnava indelebilmente, una sorta di gene difettoso nel DNA. Insomma, si nasce delinquenti e si muore tali.

Ora, io non ho cambiato idea su alcune cose: per me resta chiaro che chi delinque, chi contravviene alle regole che la società si è data per vivere civilmente deve pagare le conseguenze dei suoi atti, incluso andare in carcere e pagare il suo debito. E chi va in galera non necessariamente ne esce novella Madre Teresa.

Ma questi ragazzi e coloro che li accompagnavano hanno dato ad altre mie convinzioni una “sportellata” ben più tosta di quelle che ho mai ricevuto in campo. Averli vicino, andare all’impatto durante un placcaggio, una ruck o una mischia, me li ha fatti sentire come persone “vere”, fisiche, non più una notizia di cronaca o un mondo indistinto di facce senza volto, una statistica, un nome dimenticato dopo cinque minuti.

La svolta è stata tuttavia quando alcuni di loro hanno accettato di raccontare la loro storia. E non credo sia stato facile. Mi sono accorto che non erano poi così diversi da tanti altri ragazzi, bravi ragazzi, al di la delle cicatrici, dei tatuaggi e dei soprannomi pittoreschi. Mi hanno colpito il loro dolore nel ricordare cosa li aveva portati in carcere, la chiarezza con cui hanno saputo rendere vivida ed immediata quella loro realtà, la loro vergogna nel raccontare senza nascondere nulla chi erano prima di cambiare, grazie al rugby e grazie alla fede. Ho percepito quasi fisicamente la loro disperazione nel cadere, nel sentirsi smarriti quando tutto ti crolla intorno, la fatica e la gioia nel trovare la forza di rialzarsi e camminare di nuovo, non da soli ma come parte di una squadra. Mi ha colpito particolarmente la frase di uno di loro, che ha detto che prima è venuto il rugby e poi la fede, quasi che la Madonna si fosse fisicamente nascosta dietro la palla.

È stato tutto molto emozionante, ma limitarlo alla sfera emotiva sarebbe sbagliato. La loro testimonianza mi ha costretto a pensare che, alla fine, se noi siamo ciò che siamo è dovuto non solo a noi stessi, ma anche  alla fortuna di essere nati al di fuori di certi contesti, di non stati essere costretti a fare certe scelte. Cosa sarebbe stato di me, o cosa sarebbe potuto essere di mia figlia, di mia moglie, se ad un certo punto della vita avessi fatto la scelta sbagliata?  O se la facessi nel futuro? Avrei la forza di rialzarmi e riaffrontare la vita a testa alta come hanno fatto loro? Quanto è sottile il limite che separa una vita vissuta da una vita sprecata?

Ho poi cominciato a pensare a cosa potrebbe essere di uno dei “nostri” ragazzi, di mia figlia se, in una fase della vita nella quale ci si sente invincibili, facesse le scelte sbagliate. Per sfrontatezza, per sentirsi “grande”, per non sentirsi “meno” degli altri. O per semplice noia. Quanto posso essere io importante per lei, quanto possiamo esserlo per loro come genitori, insegnanti, allenatori, amici, o come semplici persone in grado di pronunciare le parole giuste quando necessario, di dare loro l’esempio, e di redarguirli anche aspramente quando sbagliano? Non lo so, ma io dopo quella giornata mi sento diverso. Credo di essere cambiato, e spero in meglio. Ho tante domande che mi frullano in testa, ma va bene così. Una volta qualcuno ha detto che una giornata passata senza imparare nulla era una giornata sprecata. Credo proprio di non aver sprecato il 31 ottobre. Grazie Espartanos.

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